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Dibbuk yiddish

Dibbuk yiddish Dibbuk yiddish
Introduzione, traduzione e nuova edizione del testo originale
(Archivio di Studi Ebraici, III\3)
Napoli: CSE, 2012

paperback, 176 pages
language: Italiano, Yiddish
categories: critical editions, theatre, translations
ISBN: 978-8867190133
€ 45.00

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Nel 1920 a Varsavia fu messo per la prima volta in scena Tsvishn tsvey veltn: der dibek. A dramatishe legende in fir aktn (“Tra due mondi: il dibek. Una leggenda drammatica in quattro atti”), celebre dramma di Sh. An-ski e pietra miliare sia del teatro yiddish che dell’allora nascente teatro ebraico.
A distanza di novant’anni, vede la luce una nuova edizione del testo yiddish, la prima in ortografia standard YIVO, corretta e annotata; il testo originale è accompagnato da una nuova versione italiana, un’introduzione di 22 pagine e un glossario dei termini ebraici e yiddish.
Questa edizione nasce nell’ambito di un progetto editoriale del Centro di Studi Ebraici de L’Orientale di Napoli, che ha già visto la pubblicazione – nella stessa collana – di nuove edizioni e traduzioni anche del testo ebraico di H.N. Bialik (a cura di Giancarlo Lacerenza) e del testo russo ritrovato nel 2001 a Pietroburgo (a cura di Aurora Egidio).

SOMMARIO
7 Introduzione
29 Nota al testo
33 Sh. An-ski, Tra due mondi: il dibek
90 Glossario
*1 ש. אַנ-סקי, צווישן צוויי וועלטן: דער דיבוק

Dall’introduzione:
È lecito domandarsi dove risieda il fascino senza tempo di questo cupissimo dramma d’amore, la cui azione si svolge tutta sul labile confine “tra due mondi”, tsvishn tsvey veltn, ed è dominata da una costante pulsione di morte che opera sui due giovani protagonisti, determinando ogni gesto e ogni parola di queste vittime di una passione incompiuta. Siamo di fronte a un testo complesso e multiforme, dai vari e intricati livelli di lettura: Il dibbuk è un’opera sulla potenza del desiderio represso e irrealizzato; è il racconto di una lotta titanica contro i limiti della condizione umana e una cronaca dell’ineluttabile sconfitta; è un’analisi del conflitto tra le emozioni e la legge, tra i sentimenti e la tradizione; è un quadro delle disparità sociali e un saggio spietato quanto indulgente su quella meschinità umana che trova equa distribuzione tra signori e accattoni; è una meditazione sofferta sull’anelito a Dio e ad una condizione superiore. E tutto ciò è presentato allo spettatore in un senso costante di inquietudine e minaccia, sottolineato da una serie di interrogativi che i personaggi si pongono, in un misto di angoscia e speranza, sulla vita oltre la morte e sulle presenze invisibili che guidano le nostre vite o attentano alla nostra pace (p. 15).
(…)
Nei successivi due atti, i personaggi si muoveranno attorno al suo corpo, inerte o quasi, affannandosi per scacciarne lo spirito che vi è attaccato, ma rimarranno inesorabilmente ciechi di fronte alla più scomoda, seppure evidente, realtà: una giovane donna, dopo che un messaggero dell’altro mondo le ha indicato la via, si è sottratta alle scelte imposte sul suo corpo e ha messo in atto una mite e silenziosa ribellione, mantenendola ostinatamente fino alla fine. L’apparentemente passiva Leye, giovane donna relegata ai margini della società tradizionale, oggetto di scambio per contratti matrimoniali, che parla solo per esprimere un trasognato interesse per i morti, agisce dunque pienamente e consapevolmente nell’atto della possessione; una scelta che manterrà fino alle estreme conseguenze, quando l’anima di Khonen abbandonerà il suo corpo e i due giovani potranno unirsi definitivamente (…) E c’è, nel ricongiungimento finale, una regressione alla condizione di feto; proprio quel feto, quella vita concepita o soltanto immaginata, sui cui era avvenuto il giuramento dei due padri e a cui ritornano, chiudendo definitivamente il cerchio, questi due strani amanti i cui corpi non si sono mai sfiorati.
La storia di Khonen e Leye fa de Il dibbuk un dramma ciclico: l’azione viene scatenata da un antico patto stretto sul destino di due non nati e si chiude con il ritorno a quella stessa condizione di non esistenza su cui era stata compiuta la promessa d’amore dei padri; un’azione apparentemente immotivata e casuale, ma in realtà diretta da un misterioso evento sepolto che riemergerà soltanto verso la fine, offrendo, attraverso una velatissima allusione, la possibilità di cogliere motivazioni più profonde (…) Quelle nozze contemporanee con due donne materializzano un impossibile matrimonio tra i due giovani studenti, mentre il patto sui loro bambini non ancora nati è la promessa dell’unico figlio che i due uomini potranno avere; un figlio vero, tra l’altro, che sarebbe nato quando i due figli promessi avrebbero dato loro un comune nipote. Sender afferma candidamente di aver dimenticato l’amico morto e di non essersi più interessato alla faccenda, ma ciò che ha voluto rimuovere è piuttosto l’attrazione omosessuale per l’amico di gioventù; la mancata osservanza del patto, che di quell’attrazione censurata era il frutto, è soltanto una conseguenza di questa rimozione. L’anima di Nisn cita in giudizio l’amico sopravvissuto accusandolo proprio di aver dimenticato; la sua accusa non è quella di un amico che ha subìto un torto, bensì quella di un amante abbandonato (p. 18-19).